Progettare dal basso: i processi partecipativi circolari

Adoperarsi insieme per raggiungere uno scopo condiviso è fondamentalmente la ragione per la quale l’essere umano ha avuto così tanto successo all’interno della catena alimentare. La sua capacità di saper mettere insieme gli sforzi e organizzarsi in comunità. E’ così che siamo usciti dalle caverne e abbiamo costruito le megalopoli.

Il valore della partecipazione sta però nella comunità: un ordine di grandezza abbastanza piccolo da poter porre l’attenzione sulle necessità più pragmatiche e abbastanza grande da capire la loro relazione con sistemi di ordine superiore. La partecipazione, rappresenta, a livello locale, una strategia decisionale spesso più efficace della politica, che invece nelle comunità più ristrette finisce per essere sempre troppo legata ad interessi specifici, senza riuscire a rappresentare l’eterogeneità delle opinioni. (In italia solo il 20% dei cittadini si fida dei politici locali. Fonte: Deimos 2014). Quando negli anni ’70 in Inghilterra sono stati organizzati i primi processi partecipativi comunitari, i problemi che si riscontrarono furono di ogni genere, ma i più gravi risultarono essere quelli della scarsità di dialogo che c’era all’interno delle comunità urbane e la difficoltà di lasciare che fossero i cittadini a definire le opzioni progettuali: si optò per proporre pacchetti di soluzioni già sviluppate, in maniera che alle comunità fosse chiesto solamente di scegliere la più consona da adottare. In questo modo il range di soluzioni a disposizione del cittadino erano limitate e le scelte risultavano troppo pilotate per garantire la trasparenza e la profondità che i partecipanti ai processi si aspettavano. Fu creata la figura del facilitatore di processi, un mediatore il cui ruolo fosse proprio quello di ideare e mettere in atto strategie inclusive del dibattito pubblico, permettendo la proficua interazione dei cittadini, accompagnando le varie correnti d’opinione verso una soluzione comunitaria accettata da tutte le parti in causa. Il processo partecipativo era si una pratica ideata per la base, ma richiesta e organizzata dall’alto.

WS Angolazioni, 2013, Venezia, progetto partecipato per il riuso degli spazi sottostanti i numerosi cavalcavia di Mestre

Poi è accaduto qualcosa, che ha cambiato il modo nel quale abbiamo sempre visto i processi partecipativi: l’avvento di una tecnologia, la rete globale, che ha permesso di ridisegnare il concetto stesso del partecipare, eliminandone le restrizioni tipiche di questo tipo di processi:

la presenza fisica: partecipare senza essere fisicamente nello stesso luogo, allargando il target della partecipazione e permettendo una trasparenza del processo prima impensabile.
l’identità: il ruolo dell’identità sul web viene meno, tutte le opinioni assumono lo stesso valore, da qualunque fonte esse provengano.

La multidisciplinarietà: internet costituisce una vastissima banca dati dotata di un interfaccia completamente programmabile; è possibile assumere qualsiasi informazione e rappresentarla nella maniera più consona al suo utilizzo.

Questa combinazione di fattori fa di internet il luogo più adatto dove mettere in atto i processi progettuali comunitari, e finalmente stiamo cominciando a rendercene conto: negli ultimi 15 anni si parla sempre di più di processi partecipativi, a livello locale e istituzionale, influenzando anche la direzione della ricerca su questi temi (dal 2000 al 2014 la presenza del tema “Participatory design” è aumentata del 600% all’interno dei testi accademici. Fonte: Google Books).

La piramide dei processi decisionali si sta lentamente invertendo, passando progressivamente da un sistema nel quale meno operatori, molto specializzati, rappresentano le opinioni della più larga base possibile ad uno nel quale è la base a fornire le decisioni agli operatori specializzati. I mezzi per compiere questo importante passo nella storia della partecipazione sono quantomai reali (nel 2013 l’Islanda è stato il primo paese al mondo ad essere molto vicino ad approvare un testo costituzionale interamente steso attraverso crowdsourcing) e ormai alla portata di tutti: (Ushadidi, un applicazione che sfrutta il crowdsourcing per la segnalazione e la gestione delle emergenze ha ridotto di tre quarti il tempo di intervento delle autorità competenti nelle aree dell’africa colpite da catastrofi umane e naturali.) Non è un caso che la politica, sia a livello nazionale che locale si affidi sempre di più a strategie di cittadinanza attiva per aumentare la fiducia degli elettori nei propri mezzi. (nel 2012 l’OCSE ha definito la partecipazione dei cittadini come uno delle principali condizioni per una governance effettiva).
Questo modo di operare presuppone però ancora la presenza di operatori che identifichino il problema e definiscano l’oggetto della partecipazione.

Cosa accadrebbe eliminando anche questa categoria di intermediari del progetto e mettendo al lavoro gli utenti finali per definire oggetto e termini del processo partecipativo? Se il processo fosse ideato, gestito e portato a termine dagli utenti stessi?

Sono chiamati processi partecipativi circolari: cittadini che collaborano per risolvere problemi delle comunità di cui fanno parte, insieme, relazionandosi attraverso tecniche ormai protocollate di confronto costruttivo sui temi della sanità, welfare, urbanistica, regolamentazione e governance locale. Questi processi vengono messi in atto partendo da segnalazioni portate all’attenzione dai cittadini stessi, e il loro ruolo di supervisori dell’azione pubblica ha termine solamente con il compimento del progetto selezionato dalla comunità.

Salisburgo 2010, azione spontanea di riuso temporaneo di uno spazio urbano, ad opera delle comunità di quartiere.

La sfida contemporanea sta nella creazione di piattaforme adatte a questo confronto, piazze digitali create per ospitare il dibattito delle comunità locali rispecchiando la trasparenza che ne caratterizza l’operato.

“La progettazione partecipata è un processo educativo”, spiega Raymond Lorenzo di ABCittà, “Questo tipo di interazione tra i cittadini garantisce la conoscenza reciproca e il senso di appartenenza alla località, costruendo il concetto di comunità”. Il web non deve quindi essere visto come una scorciatoia, un metodo per semplificare i complessi percorsi reali di condivisione, ma piuttosto è da intendere come un innovazione tesa ad affiancare la progettazione reale, per massimizzarne la copertura e connettere il lavoro svolto dalla comunità ad entità più grandi, come sponsor, istituzioni ed esperimenti simili nei contenuti.

L’obiettivo di CivicWise è quello di generare una piattaforma che permetta l’interazione tra le comunità, l’identificazione del tema, la definizione di adeguate soluzioni progettuali, la scelta di un progetto, il suo finanziamento, la sua gestione e realizzazione direttamente dalla base, coprendo tutti gli step necessari alla finalizzazione del processo e sostenendo le comunità nei loro sforzi. Nessuna mediazione, nessun compromesso: solo cittadini uniti da un fine: Lavorare insieme per raggiungere uno scopo condiviso.

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